Quando riceviamo un pacco, magari è anche un regalo, e vediamo la scritta “fragile”, siamo invasi da una sensazione di stupore, di curiosità, di attesa, di emozione. Le mani diventano lente nel maneggiare il pacco, lo toccano con delicatezza e cura per la paura di rompere o rovinare qualcosa. Quel termine “fragile” dà già al pacco un carattere di pregio, di valore.
Trasferiamo ora il termine “fragile” alla persona, e il significato cambia completamente. “E’ una persona fragile”…, si dice, innescando spesso l’immagine di chi arranca nella vita, di chi è in balia delle difficoltà, di chi non ha risorse sufficienti per superare gli ostacoli, di chi si destabilizza facilmente, di chi è talmente vulnerabile da rompersi. Il valore, il prestigio, lo stupore, e la curiosità scompaiono, lasciando il posto, nel migliore dei casi, alla cura di chi non ha paura del contagio e ama dedicarsi all’altro, nel peggiore, la pazienza, il dovere e/o la responsabilità dell’assistenza.
Da professionista sanitaria sono abituata ad associare il termine “fragilità” alla malattia, soprattutto quando essa toglie l’autonomia, la capacità di autodeterminazione, il potere dell’essere, anche se oggi, paradossalmente, non è tanto la malattia a renderci fragili, quanto la fragilità che ci espone maggiormente alla malattia.
Che cosa ci rende allora così fragili? Isabella Guanzini, nel libro “Tenerezza”, ci parla della “società della stanchezza”, una società nella quale si è indebolita la forza dei legami. [Isabella Guanzini. Tenerezza. 2017. Ponte alle Grazie]
Nel millennio della sconfitta della lontananza, grazie allo sviluppo delle telecomunicazioni, le relazioni sono diventate molto veloci, senza l’attesa dell’incontro, senza la necessità del contatto. Si preferisce il freddo tocco di una tastiera, che trasmette parole scritte, purtroppo, spesso senza emozioni, perché le emozioni hanno bisogno della comunione dei sensi per essere respirate, e del corpo per essere manifestate.
La forza dei legami emerge in tutta la sua rilevanza a qualsiasi età, ma è nella vecchiaia e nella malattia che questa forza si impone, condizionando, a prescindere dall’età, il rischio di istituzionalizzazione nell’anziano, o la facilità/difficoltà di gestire la malattia. Se solitudine e tristezza sono elementi di fragilità, c’è da chiedersi dove sia oggi la famiglia, considerata il primo strumento, per eccellenza, di socializzazione e di neutralizzazione, appunto, della solitudine e della tristezza. L’uomo appare sempre più solo, individualista nel suo bisogno prestazionale e produttivo. Ed è proprio questa iper produttività, questa centratura su se stesso, questo individualismo, a portare, poi, nella vecchiaia, a quella solitudine di affetti e mancanza di reti sociali, e, di conseguenza, a quella stanchezza, che si ripercuote inevitabilmente sulla salute psico-fisica di qualsiasi essere umano.
La famiglia ha perso, oggi, quella caratteristica patriarcale e matriarcale, che garantiva all’anziano e all’anziana di mantenere il proprio ruolo di capofamiglia o di madre/regina della casa, ruoli entrambi rispettati, pur nella loro differenza di genere e di potere. L’allungamento della vita consente agli anziani di oggi di diventare “grandi anziani”, ma la loro fragilità aumenta di giorno in giorno, man mano che le malattie diventano più invalidanti, e l’autosufficienza si riduce. Spesso, sentiamo qualche anziano dire “.. non riesco più a fare quello che facevo ieri…”, oppure “… sono stanco, ogni giorno è uguale all’altro..” Lo psichiatra Vittorino Andreoli ci dice che la pensione rappresenti l’inizio convenzionale della vecchiaia, si passi dalla vita del produrre a quella dei sentimenti [Vittorino Andreoli. Lettera ad un vecchio (da parte di un vecchio). 2023 Solferino]. Quanto incide, quindi, sia fisicamente che psicologicamente questa improvvisa mancanza di produttività? Che il segreto della serenità, che si traduce poi in salute, stia proprio in quella produttività, che potrebbe ridimensionarsi in una produttività desiderata, rispettosa dei sentimenti e della libertà?
In una società industrializzata e capitalista, come la nostra, tutta l’attenzione è orientata all’occupazione produttiva e al benessere economico, a scapito di perdere momenti di relazione e affetto familiare, con la conseguenza di conflitti di coppia, e mancanza di presenza con i figli. Oggi, il nucleo familiare cambia rapidamente in base ai legami, che si sciolgono e si ricostituiscono, anche più volte, richiedendo un’elasticità emotiva non sempre facile da raggiungere. Nello stesso tempo, essa ha perso la sua caratteristica di nucleo circoscritto al legame biologico, per aprirsi al legame per affinità. Sono proprio questi i cambiamenti che richiedono ai figli spirito di adattamento, anche se, non sempre, questo adattamento è esente dall’insorgere di disagi psicologici, che li rende fragili e vulnerabili, aprendo spesso la porta della solitudine.
Eppure, nonostante l’uomo, così come il giovane, si siano abituati a questa solitudine, forse anche volontaria, l’esempio recente della pandemia da COVID ci dice, che quando l’isolamento è obbligato porta in molti, se non in tutti, una forte angoscia, che sfocia spesso nella depressione, richiedendo, talvolta, l’aiuto dei sanitari per poterla gestire. Questo significa che la pandemia, pur trovando già un terreno fertile, ha fatto comprendere a tutti il rischio della malattia da stanchezza solitaria e da tristezza, e la tristezza comporta sempre la diminuzione o l’annullamento della potenza di agire. Una società triste è una società immobile, che non si ribella, che si adatta, che si rassegna. E, allora, sorge una riflessione: che la tristezza dell’altro possa essere di interesse per chi vuole togliere all’altro quella potenza di agire?
La famiglia di oggi è provata anche dall’aumento di bisogni sanitari dei figli, fin dalla nascita. Il progresso della medicina perinatale ha, infatti e fortunatamente, ridotto la mortalità infantile, ma sono più frequenti i casi di bambini con fragilità, più o meno importanti, che impegnano tutti i membri della famiglia. La scuola e le strutture sociali aiutano queste famiglie nella gestione dei figli, ma la loro crescita e la loro capacità di stare al mondo potrebbe essere condizionata dalla necessità di una presenza continua, e di questo la famiglia ne è consapevole, diventando così cellula vulnerabile e bisognosa di spazi di ascolto.
Va da sé, che questa famiglia del nuovo millennio non può e non deve essere lasciata sola. Deve essere protetta e supportata con interventi pertinenti e precisi di politiche sociali. Va aiutata nella capacità genitoriale, che non è innata come l’amore con la maternità o la paternità, ma va appresa come qualsiasi altra capacità. Va aiutata nell’utilizzo appropriato di servizi sociali e sanitari, va aiutata nel comprendere il proprio bisogno di aiuto, e di quanto sia importante imparare a chiederlo. Va aiutata nel comprendere come vivere la presenza dell’anziano, considerandolo una risorsa più che un impegno di cura. Va aiutata nell’apprendere e nel gestire le emozioni che fanno parte dei vissuti relazionali.
E allora, la fragilità, che è in noi, potrebbe essere considerata un modo di essere e non solo un indice di vulnerabilità? Per rispondere a questa domanda dobbiamo, forse riflettere, prima, sul chi siamo noi, se siamo consapevoli dei nostri limiti, se li accettiamo, se riusciamo a viverli con serenità, se riusciamo ad abitare la nostra natura, il nostro essere. Abbiamo vissuto la nostra vita nella nostra fragilità? Cosa facciamo della nostra mancanza? Siamo stati all’altezza della nostra mancanza? L’abbiamo accettata? Forse, no. Eppure, Emily Dickinson con la sua bellissima poesia “…. Poi mi porsero il valore del mio Essere – Un singolo Grammo di Cielo!” ci ricorda che ognuno di noi è un singolo grammo di cielo, ognuno di noi è straordinario nella sua fragilità. Se partissimo da questo ultimo concetto, la fragilità non sarebbe così dolorosa, e non ci renderebbe, concretamente, così vulnerabili.
Se guardiamo al passato, menti e artisti illustri hanno creato le loro opere nel momento più fragile della loro vita o ricordando quel momento. Molti sono gli esempi: da Van Gogh , pittore tanto geniale, quanto incompreso dal padre, se non addirittura disprezzato in vita dalla società, e i cui quadri più belli, oggi tanto ammirati dalla nostra di società, non diversa da quella di ieri, rispecchiano la solitudine, il senso di inquietudine, e la sofferenza data dal disagio mentale; alla scrittrice Alda Merini, i cui testi più intensi sono nati proprio dalla sua drammatica e sconvolgente esperienza in un ospedale psichiatrico; allo psichiatra Viktor Frankl, che trova la forza di dare un senso alla vita, persino nella sofferenza della detenzione nel campo di concentramento, nel momento della sua più grande vulnerabilità, arrivando a definire la libertà come la capacità di assumere un determinato atteggiamento in qualunque condizioni ci si trovi a vivere, facendo della vita un’opportunità straordinaria, anche nella fragilità. E, probabilmente, se leggessimo le biografie di tutte le persone di cui oggi ammiriamo le opere, troveremmo una grande fragilità, quasi sempre non accettata, prima, dalla famiglia, che non dalla società, ma sicuramente condizionante l’espressione delle potenzialità.
Lo psichiatra Eugenio Borgna ci dice che “la fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti. Eppure siamo condizionati dal timore di non essere accettati, di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto”. [Eugenio Borgna. La fragilità che è in noi. 2014. Giulio Einaudi Editore] La fragilità ci caratterizza come essere umani. I nostri pensieri iniziano dai traumi, che diventano domande e problemi, che danno da pensare, e il trauma più importante è l’altro, con cui mi devo confrontare. Ecco perché abbiamo bisogno di ascolto, di attenzione, di relazioni gentili e umane, fatte di parole fragili, come dice appunto Borgna. Le parole fragili sono portatrici di speranza, apertura, luce e dignità, ma non sempre sono sonore, talvolta nascono dal silenzio dei volti, delle lacrime, del sorriso, e delle espressioni più interiori. Abbiamo bisogno di relazione perché parole e ascolto ci consentono di essere riconosciuti e di valere.
Quando noi entriamo in relazione con l’altro è sempre un trauma, una frattura, perché l’altro è un’incognita, non misurabile. Ne riconosciamo l’unicità, l’altro non è altro perché diverso da noi, ma è altro in quanto altro. L’altro non si manifesta mai completamente, ci presenta la sua fragilità, che può diventare vulnerabilità in alcuni tratti, ma mai completamente. Ed è questa incompletezza nel manifestarsi, questo concetto di unicità che ci consentono la sospensione del giudizio.
Oggi, la fragilità sociale viene considerata l’anticamera della malattia, eppure, utilizzando tutte le posizioni percettive potremmo riuscire a guardare la fragilità con altri occhi, a valorizzarla nella sua unicità e diversità, a ridurne la vulnerabilità, e ad essere tutti un singolo grammo di cielo.
Siamo parti di un tutto ed esistiamo solo perché esiste il mondo intorno a noi.
Nicoletta Postal